Danilo Dolci nasce il 28 giugno 1924 a Sesana, in provincia di Trieste, da Enrico e da Meli Kontelj, di nazionalità slovena. Il lavoro del padre, dipendente delle ferrovie, conduce la famiglia in Lombardia: qui il giovane Danilo compie i primi studi. Lettore vorace, i suoi interessi spaziano dai Dialoghi di Platone ai grandi poeti del Romanticismo tedesco ai classici del pensiero orientale.
Nel 1943 rifiuta di vestire la divisa repubblichina ed è arrestato a Genova: riesce a fuggire riparando in Abruzzo. Al termine del conflitto – dopo un breve soggiorno nella capitale, durante il quale segue corsi universitari di architettura e le lezioni di Ernesto Buonaiuti – è di nuovo a Milano, dove prosegue gli studi al Politecnico e conosce, tra gli altri, Bruno Zevi.
Le prime opere che pubblica sono due manuali di scienza delle costruzioni a uso degli studenti di architettura. Per guadagnare qualcosa, insegna presso una scuola serale a Sesto San Giovanni: tra gli operai che siedono dietro i banchi c’è anche Franco Alasia, col quale inizia un importante e fecondo rapporto di amicizia e collaborazione.
Nello stesso 1950 Dolci compie una scelta fondamentale per tutto il suo percorso successivo: a un passo dal completamento degli studi, abbandona l’Università e va a vivere a Nomadelfia, «la città dove la fraternità è legge», una comunità di accoglienza per bambini sbandati dalla guerra, sorta nell’ex campo di concentramento nazifascista di Fossoli (Modena) per volontà di don Zeno Saltini, guardata con sospetto dai benpensanti e considerata un pericoloso covo di sovversivi dalla gretta classe dirigente di quegli anni e dalle stesse gerarchie cattoliche.
L’anno successivo, una decisione ancora più radicale: Dolci lascia Nomadelfia e si trasferisce in Sicilia, nel piccolo borgo marinaro di Trappeto, povero tra i poveri in una delle terre più misere e dimenticate del Meridione. Comincia, così, a essere tracciata una delle pagine più limpide e intense della difficile rinascita civile e democratica dell’Italia dalle macerie morali e materiali del fascismo e della seconda guerra mondiale. Dolci stesso parlerà di «continuazione della Resistenza, senza sparare».
Il 14 ottobre 1952, sul letto di un bambino morto di fame, Danilo Dolci dà inizio al primo di numerosi digiuni, che daranno grande popolarità alle sue battaglie per il lavoro, per il pane, per la democrazia. La protesta viene interrotta solo quando le autorità si impegnano a realizzare alcuni interventi urgenti in favore delle poverissime popolazioni siciliane. La stampa comincia a parlare di Dolci come del “Gandhi italiano”.
Nel gennaio del 1956, a poche settimane dalla pubblicazione di Banditi a Partinico, oltre mille persone danno vita a un imponente sciopero della fame, vòlto a denunciare il diffuso e tollerato fenomeno della pesca di frodo, che priva i pescatori di ogni mezzo di sussistenza. La manifestazione è vietata con la singolare motivazione che «un digiuno pubblico è illegale». Sempre del 1956 è lo sciopero alla rovescia, con centinaia di disoccupati impegnati a riattivare una strada comunale resa intransitabile dall’incuria delle amministrazioni locali. La reazione dello Stato è, ancora una volta, repressiva: una carica delle forze dell’ordine disperde i manifestanti, mentre gli organizzatori vengono arrestati. Il “caso Dolci” infiamma il Paese, occupa le prime pagine dei giornali, accende un vivace dibattito al Senato e alla Camera: decine di parlamentari chiedono al Governo di chiarire i motivi dell’arresto e di assumere provvedimenti contro i funzionari di polizia che lo hanno disposto. Dolci viene scarcerato al termine di uno storico processo.
Nel 1958, gli viene attribuito il Premio Lenin per la Pace. Si costituisce nel 1958 il Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione, con il sostegno di tanti intellettuali e amici dall’Italia e dall’estero, creato a partire dall’esigenza di offrire alle comunità locali una struttura impegnata nella risoluzione pratica dei problemi emersi da incontri continui di Danilo con la gente, con l’intento ultimo di promuovere lo sviluppo economico e sociale del territorio.
Sviluppando l’intuizione di un contadino, nel corso delle riunioni dedicate ad analizzare l’arretratezza economica della regione e all’individuazione di possibili soluzioni, prende corpo il progetto per la diga sul fiume Jato. Tecnici esperti, consultati, confermano che l’idea di edificare un grande bacile per raccogliere la copiosa pioggia invernale e utilizzarla nei mesi estivi è tutt’altro che insensata. La realizzazione richiederà quasi dieci anni di lotte e mobilitazioni popolari. Questa diga, che ha sottratto alla mafia il monopolio delle scarse risorse idriche precedentemente disponibili, ha rivoluzionato la vita di migliaia e migliaia di cittadini, consentendo nella zona la nascita di numerose cooperative e una crescita economica assolutamente impensabile prima.
Il 15 gennaio 1968 è una data drammatica: un violentissimo terremoto sconvolge la Valle del Belice. Il 15 settembre dello stesso anno viene reso pubblico un accurato piano di sviluppo per le zone terremotate, frutto del lavoro di decine di esperti. Per sostenere il progetto di Città-territorio e denunciare la lentezza dell’opera degli organi dello Stato, si avviano cinquanta giorni di pressione. Il plastico del piano, le cartine, la documentazione raccolta sono presentati nei Comuni colpiti dal sisma e discussi con i cittadini.
Il 25 marzo 1970 la prima emittente privata “illegale”, Radio Libera Partinico, lancia un appello disperato: la gente vive ancora nelle baracche, neppure un edificio è stato ricostruito, «si marcisce di chiacchiere e di ingiustizie, la Sicilia muore». Si ripropone un copione già noto: le forze di polizia fanno irruzione nei locali del Centro, interrompono le trasmissioni, arrestano i responsabili. Da tutto il mondo arrivano centinaia di messaggi di solidarietà e di adesione all’appello di Dolci
Si approfondisce, nel contempo, la ricerca sulla struttura maieutica e sulle sue possibili applicazioni: Dolci intensifica la collaborazione con i più importanti educatori mondiali e con l’Unesco: un impegno che suscita meno clamore rispetto alle prime iniziative, ma non meno essenziale. “Danilo”, ricorda Giuseppe Casarrubea, “era dell’idea che una scuola per bambini dovesse essere fatta a misura di bambino […]. Così, non solo occorreva ripristinare il rapporto tra bambino e ambiente esterno perché tutto gli potesse essere visibile, ma occorreva realmente pensare al bambino come il punto di osservazione del mondo. Allora tutto si sarebbe adeguato ai suoi bisogni. Questa considerazione comportava un’incredibile mobilitazione di energie”. Il nuovo Centro educativo di Mirto, del quale persino la collocazione geografica era stata discussa nel corso delle usuali riunioni con la gente del luogo, viene inaugurato nel gennaio del 1975 e può contare su un gruppo di collaboratori davvero straordinario: Paulo Freire e Johan Galtung, Ernesto Treccani e Paolo Sylos Labini, Gianni Rodari e Gastone Canziani, Mario Lodi e Aldo Visalberghi.
Continuano i riconoscimenti al lavoro di Dolci: mentre si susseguono ben nove candidature al Premio Nobel per la Pace, nel 1968 l’Università di Berna gli conferisce la laurea honoris causa in Pedagogia. Nel 1970 ottiene il Premio Socrate di Stoccolma «per l’attività in favore della pace e per i contributi di portata mondiale nel settore dell’educazione». L’anno successivo l’Università di Copenaghen gli assegna il Premio Sonning «per il suo contributo alla civilizzazione europea».
Nel 1985 il Centro Studi e Iniziative si ristruttura in Centro per lo Sviluppo Creativo, approfondendo le pratiche di educazione nonviolenta e contribuendo all’elaborazione di una metodologia, la maieutica reciproca, che possa favorire lo sviluppo creativo nelle scuole e sul territorio.
In India, nel 1989, gli viene attribuito il Premio Gandhi. Il 13 maggio 1996, l’Università di Bologna gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione.
All’alba del 30 dicembre del 1997, al termine di una dolorosa malattia che, senza fiaccarne lo spirito, lo aveva fisicamente prostrato e costretto a lunghi ricoveri ospedalieri, Danilo Dolci si spegne, stroncato da un infarto: tra Partinico e Trappeto, in quella terra di «banditi» e di «industriali», di contadini e pescatori senza voce, che quarantacinque anni prima aveva scelto per avviare la sua difficile, lunga battaglia.