Danilo Dolci
Danilo Dolci, pacifista, educatore e attivista, si serviva di due strumenti centrali nella sua pratica maieutica: la domanda e il cerchio. Entrambi questi dispositivi erano pensati per creare suggestioni, che portassero alla riflessione e al dialogo, non solo come tecniche pedagogiche, ma come veri e propri atti di co-creazione del sapere. La domanda, ad esempio, poteva nascere spontaneamente da un bambino di tre anni che gli chiedeva, per esempio, come mai ci fosse un verme nella mela. Invece di rispondere con una spiegazione complessa, l’adulto restituisce al bambino il potere della domanda, incoraggiandolo a formulare ipotesi e a cercare insieme delle risposte. È in questo processo che il bambino si riappropria della curiosità e ne fa uno strumento di lavoro, rafforzando la propria capacità di pensare autonomamente e crescere attraverso l’esplorazione.
Il cerchio, d’altra parte, rappresenta la dimensione collettiva di questo processo. È un luogo simbolico e concreto di appartenenza, dove ognuno può esprimersi e contribuire alla riflessione comune, sviluppando un ambiente di ascolto reciproco e confronto. È qui che si libera la creatività e si scoprono nuovi punti di vista, poiché il cerchio offre a ciascun partecipante la possibilità di contribuire, di essere ascoltato e di ascoltare gli altri. Questo strumento collettivo permette di costruire una comunità educativa che accoglie, sostiene e sviluppa il potenziale di ogni individuo.
La frase conclusiva di una delle sue più famose poesie, «Ognuno cresce solo se sognato», riassume perfettamente questa intuizione. Quando il desiderio di educare non si trasforma in una pretesa rigida, ma rimane aperto al sogno e alla scoperta, l’educazione diventa un atto creativo. È su questo sfondo che si inserisce l’esperienza del laboratorio di fotografia analogica realizzato nell’A.S. 2024-2025 dall’IOC P. Levi, presso i plessi dell’infanzia di Ancarano, Faraone e Sant’Egidio alla Vibrata, un progetto che, come vedremo, ha saputo valorizzare l’attesa, la lentezza e lo stupore come strumenti di crescita e di meraviglia.
Nelle aule dei plessi dell’infanzia di Ancarano, Faraone e Sant’Egidio alla Vibrata, in provincia di Teramo, è accaduto qualcosa di straordinario. Non parlo di un nuovo strumento tecnologico, né di un’applicazione didattica all’avanguardia. Al contrario, ciò che ha trasformato quei giorni è stata una pratica che sembrava appartenere ad altri tempi: la fotografia analogica.
Il protagonista di questa storia è un insegnante dell’ IOC “Primo Levi”, un po’ sognatore, un po’ alchimista, che ha deciso di portare tra le mani piccole e curiose dei bambini un antico strumento: una macchina fotografica analogica. Supportato dalle insegnanti dei plessi e coinvolgendo attivamente i bambini, ha avviato un laboratorio di fotografia, con un obiettivo apparentemente semplice, ma in realtà profondo: riscoprire la meraviglia della lentezza, dell’attesa e della sorpresa.
L’inizio: curiosità e stupore
Quando l’insegnante ha mostrato ai bambini la macchina fotografica analogica, alcuni hanno strizzato gli occhi, come se stessero guardando un oggetto antico e sconosciuto. Abituati alla velocità delle immagini digitali, alla possibilità di scattare decine di foto in pochi secondi, la macchina analogica con i suoi rullini sembrava quasi una reliquia. “Dove si vede la foto?”, chiedevano incuriositi. Non c’era schermo da scrollare, non c’era un’anteprima immediata. Qui, tutto richiedeva tempo. Ma quella curiosità iniziale si è presto trasformata in stupore.
Ogni bambino ha avuto il compito di scattare un ritratto a un compagno. Con l’aiuto delle insegnanti, hanno imparato a inquadrare, a fermarsi, a scegliere il momento giusto. Niente selfie rapidi o scatti multipli: uno scatto, uno solo, come fosse un atto unico e irripetibile. La magia risiedeva proprio lì, nel pensare attentamente al momento da catturare.
L’attesa: la lentezza che nutre la meraviglia
Il laboratorio non si fermava allo scatto. Anzi, il vero viaggio cominciava proprio dopo. I rullini venivano sviluppati con tecniche naturali, che mescolavano chimica e natura, aggiungendo un tocco magico all’intero processo. Gli occhi dei bambini si illuminavano quando l’insegnante spiegava come il succo di limone o il caffè potessero contribuire a far emergere un volto dal nulla.
E poi c’era l’attesa. Lentezza pura. Un’esperienza rara in un mondo fatto di immediatezza e costanti aggiornamenti. I bambini dovevano aspettare che le immagini si formassero, lentamente, sulla pellicola. E quando finalmente arrivava il momento di vedere il risultato, c’era qualcosa di quasi rituale nello schermo dello scanner che rivelava, poco a poco, il volto di un compagno.
I bambini restavano incantati mentre guardavano l’immagine emergere. Le linee, prima confuse, prendevano forma, delineando volti che conoscevano bene, ma che ora apparivano nuovi, quasi mistici. “Guarda, è lui!” esclamavano a volte con un tono di incredulità, riconoscendo il compagno di classe che era stato pazientemente in posa per loro. Il bianco e nero donava a quei volti una nuova profondità, una sincerità senza filtri.
Il valore del bianco e nero: riconoscere e accogliere
L’uso del bianco e nero non era casuale. L’insegnante aveva scelto questa modalità per invitare i bambini a guardare oltre i colori, oltre l’immediatezza. Riconoscere i volti dei loro amici senza il filtro delle tonalità vivaci li ha aiutati a concentrarsi sulle espressioni, sugli occhi, sui sorrisi accennati. Ogni ritratto raccontava una storia, e in quel bianco e nero c’era una purezza che sembrava amplificare l’essenza di ogni bambino.
La scelta del bianco e nero ha avuto anche un altro valore educativo: ha aiutato i bambini a riconoscere e accogliere la diversità in modo nuovo. Senza le distrazioni del colore, si sono soffermati sugli aspetti essenziali dell’identità dell’altro, sviluppando un senso di appartenenza e di accettazione, e comprendendo che, anche nelle differenze, c’è sempre un’umanità comune da scoprire.
L’epilogo: insegnamenti che restano
Il laboratorio di fotografia analogica ha lasciato un segno profondo non solo sui bambini, ma anche sulle insegnanti. In un mondo dove tutto è veloce, dove l’immagine si consuma con un movimento di pollice su uno schermo, questa esperienza ha insegnato il valore dell’attesa, della riflessione, della cura. Scattare una foto non era più un gesto banale, ma un atto di attenzione e presenza.
I bambini hanno scoperto il piacere della pazienza, il significato profondo dell’attendere qualcosa che merita il suo tempo. E, soprattutto, hanno imparato a riconoscere e accogliere i volti dei loro compagni in modo diverso, più profondo. Non attraverso il giudizio superficiale o la velocità, ma con la lentezza e la meraviglia di chi sa aspettare, di chi sa osservare e accogliere senza fretta.
La lezione più grande: aspettare senza scrollare
Questa esperienza non è solo un’ode alla fotografia analogica, ma una riflessione più ampia su come l’educazione possa recuperare la dimensione del tempo, dell’attesa, del silenzio. In un’epoca in cui tutto scorre velocemente e dove la tecnologia ci offre infinite scorciatoie, il laboratorio di fotografia analogica ha insegnato a fermarsi, a vivere pienamente il momento.
Aspettare, senza scrollare. Guardare, senza fretta. Riconoscere, senza giudicare. Sono questi gli insegnamenti che i bambini porteranno con sé, e che forse, in qualche modo, contribuiranno a formare una generazione più attenta, più consapevole, più capace di meravigliarsi di fronte alla bellezza nascosta nelle piccole cose come gesto attivo e non violento. Il tempo, la sua attesa, lo stupore e la meraviglia di essi e in essi riscoprire una dimensione di accoglienza e di rispetto del prossimo.
Danilo Dolci, attraverso la sua pedagogia attiva e non violenta, ha sempre cercato di mettere al centro l’individuo, la sua curiosità, e il suo potenziale creativo. La sua visione educativa si basava sull’idea che l’apprendimento non può essere imposto dall’alto, ma deve emergere spontaneamente attraverso l’esperienza diretta, il dialogo e il rispetto dei tempi di ciascun individuo. In questo senso, il laboratorio di fotografia analogica realizzato presso i plessi dell’infanzia di Ancarano, Faraone e Sant’Egidio alla Vibrata nell’A.S. 2024-2025 si collega profondamente alla sua filosofia educativa.
Come nella pratica maieutica di Dolci, che faceva leva sulla domanda per stimolare la riflessione e la partecipazione attiva, il laboratorio di fotografia analogica ha incoraggiato i bambini a esplorare il mondo visivo attraverso un approccio lento e riflessivo. Il processo stesso della fotografia analogica, con i suoi tempi dilatati e l’assenza di risultati immediati, richiama quel principio educativo dolciano in cui l’attesa e la riflessione diventano parte integrante dell’apprendimento. Scattare una foto e aspettare che il volto del compagno emergesse lentamente sulla pellicola o attraverso lo scanner non era solo un esercizio tecnico, ma un atto di osservazione, di attenzione profonda, di dialogo interiore e collettivo. Come nella “scuola del cerchio” di Dolci, anche qui i bambini non erano semplici spettatori passivi, ma protagonisti attivi del loro apprendimento, in un processo che favoriva la scoperta personale e il confronto con gli altri.
La non violenza, come fondamento dell’approccio educativo di Dolci, si traduceva nella valorizzazione dei tempi e dei ritmi individuali, senza forzature o imposizioni. Nel laboratorio di fotografia analogica, questo si rifletteva nella calma e nella pazienza necessarie per attendere lo sviluppo delle immagini. L’assenza di immediatezza tipica delle tecnologie digitali ha permesso ai bambini di vivere un’esperienza di rispetto per il processo e per il tempo altrui, creando uno spazio di accoglienza in cui ogni scatto diventava un’occasione per riconoscere l’altro e per costruire insieme un’esperienza condivisa. L’immagine in bianco e nero, priva di distrazioni cromatiche, ha permesso loro di concentrarsi sull’essenza dell’altro, stimolando quella stessa empatia e reciprocità che Dolci cercava di coltivare nelle sue comunità educative.
In definitiva, il laboratorio di fotografia analogica ha incarnato lo spirito della scuola attiva e non violenta di Danilo Dolci, trasformando la pratica del fotografare in un atto di ascolto, di scoperta e di crescita reciproca. Proprio come nell’approccio dolciano, i bambini hanno imparato che educare e apprendere non sono atti lineari e veloci, ma processi creativi che richiedono tempo, attenzione e rispetto. Un’educazione che si fa, in ogni suo momento, non solo acquisizione di competenze, ma anche e soprattutto crescita umana.
Esperienza Pedagogica: La Magia della Fotografia Analogica. Un Viaggio Lento tra Attesa e Stupore
Dirigente Scolastico: Lucia Condolo
Docenti referenti:
Elisabetta L’Innocente (documentazione e disseminazione)
Tania Sorgi (referente progetto)
Claudio Romano (esperto)
Plesso Ancarano:
Sabrina De Berardinis
Plesso di Faraone:
Donatella Di Luigi
Plesso di Sant’Egidio alla Vibrata:
Pamela Cordivani (referente infanzia)
Ester Scortica
Lorena Di Francesco
Dolores Di Pierdomenico
Angela Di Giuseppe
Federica Menchini
Saviana D’Antonio
Elisabetta Di Giacinto